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Robotaxi impazziti, scoppia il caos in strada: cosa è successo

Per qualche ora, a San Francisco, quello che per molti sarà il futuro della mobilità ha deciso improvvisamente di fermarsi. Non metaforicamente, ma in modo vero e concreto. Agli incroci più trafficati della città, in mezzo alle corsie, davanti a semafori spenti e strade improvvisamente mute, decine di robotaxi Waymo sono rimasti immobili, come animali elettronici disorientati da un mondo che, senza elettricità, aveva smesso di parlare la loro lingua. Non un guasto isolato, non l’errore umano tanto invocato dai detrattori della guida autonoma, ma una paralisi collettiva. Una coreografia involontaria che ha trasformato l’avanguardia della mobilità in una lezione pubblica sulla fragilità dei sistemi complessi.

Cosa è successo

Il blackout elettrico che ha colpito parte della città ha spento semafori, sistemi di controllo del traffico, infrastrutture di comunicazione. E con loro una delle premesse fondamentali su cui si regge l’operatività dei veicoli autonomi: un ambiente leggibile, ordinato, costantemente alimentato da energia e rete. Venuta meno quella grammatica urbana, l’algoritmo ha fatto esattamente ciò per cui è stato progettato in nome della sicurezza: si è fermato. Nessuna improvvisazione, nessuna interpretazione del contesto, nessuna capacità di negoziare l’eccezione. Stop.

È qui che la marcia trionfale della guida autonoma mostra la sua crepa più profonda. L’autonomia, quella vera, non è l’assenza del volante o del conducente, ma la capacità di continuare a funzionare quando il mondo smette di essere ideale. Il blackout di San Francisco racconta invece un modello iper-dipendente da condizioni esterne che non controlla: energia elettrica stabile, segnaletica funzionante, connettività continua, infrastrutture urbane coerenti. Basta che uno solo di questi elementi venga meno e il sistema si arresta.

Non sarebbe successo con l’auto di “sempre”

L’automobile tradizionale, nel bene e nel male, è un oggetto capace di resistere anche a questi urti, proprio perché incorpora nell’anello decisionale un soggetto capace di interpretare l’ambiguità. Un guidatore può leggere un incrocio senza semafori, cogliere un gesto, intuire un’intenzione, assumersi una responsabilità. È una tecnologia imperfetta perché umana, ma proprio per questo capace di assorbire il caos. I sistemi automatizzati, al contrario, sono potentissimi nella normalità e fragilissimi nell’anomalia. La loro intelligenza non è situazionale, ma condizionata, non distribuita, ma vincolata a presupposti ambientali rigidi. Quando l’infrastruttura smette di essere affidabile, la tecnologia non evolve ma si ferma.

L’episodio di San Francisco apre così una domanda più ampia, che va oltre il singolo blackout. È davvero possibile costruire modelli di mobilità fondati sulla rinuncia alla proprietà in società complesse, diseguali, imperfette? O stiamo proiettando su questi sistemi un’idea normativa di città che esiste solo nei rendering: ordinata, omogenea, sempre funzionante? Non si tratta di difendere nostalgicamente l’auto privata come feticcio culturale, né di negare il valore della mobilità condivisa. L’auto personale funziona anche quando la città non funziona. Quando manca la corrente, quando il traffico è caotico, quando i sistemi pubblici sono incoerenti. I modelli di mobilità automatizzata e condivisa, invece, funzionano solo quando tutto funziona. E questa, nel mondo reale, non è la regola: è l’eccezione. San Francisco, per qualche ora, ce lo ha ricordato nel modo più semplice e più crudele possibile. Fermandosi.

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