Per capire davvero cosa sta accadendo nell’industria dell’auto serve un esercizio di onestà intellettuale: partire dai numeri e guardare in faccia la realtà. E quest’ultima, oggi, racconta una storia che nessuno in Occidente ha avuto voglia di ascoltare. Per anni abbiamo immaginato l’offensiva cinese come un’orda di silenziosi modelli elettrici pronti a travolgere il mercato europeo, tanto che Bruxelles ha imbracciato la clava dei dazi come arma di autodifesa. Ma la verità – quella solida, fatta di dati, spedizioni e volumi – è il bersaglio mancato, perché l’avanzata cinese non viaggia solo a batteria, anzi, soprattutto a benzina.
Il grande abbaglio occidentale
Abbiamo creduto che la partita si giocasse tutta sulla transizione elettrica. Lo abbiamo fatto perché la Cina, nel suo mercato interno, ha scelto di spingere le EV come mai nessuno prima: incentivi colossali, politiche industriali aggressive, strategie commerciali che hanno ribaltato gli equilibri. Il risultato è stato un mezzo terremoto: nel giro di pochi anni le elettriche hanno conquistato quasi metà delle vendite nazionali, lasciando sul pavimento marchi stranieri storici e costruttori locali incapaci di reggere il confronto con colossi come BYD.
Eppure, mentre in Occidente eravamo impegnati a discutere di colonnine, cicli di ricarica e materie prime, qualcosa si muoveva sottotraccia. Le stesse case cinesi che faticavano a piazzare le loro vetture termiche in patria – rese improvvisamente obsolete da un mercato che rumoreggiava solo elettroni – hanno iniziato a esportare quelle auto in massa. Non le elettriche, dunque: le auto a benzina.
La realtà dei numeri: una valanga termica
Dal 2020, il 76% delle esportazioni automobilistiche cinesi è composto da auto a combustione. Non piccole nicchie, non residui marginali: tre veicoli su quattro spediti fuori dai confini sono termici. Le spedizioni annue sono passate da 1 a oltre 6,5 milioni di unità, un incremento che nessuna potenza industriale aveva mai mostrato in tempi così brevi. Mentre noi guardavamo ossessivamente ai listini delle elettriche del Dragone, Pechino svuotava gli stock di vetture tradizionali riversandoli negli altri mercati.
Non per scelta “strategica”, ma perché la politica nazionale ha creato un gigantesco effetto collaterale: milioni di auto termiche diventate invendibili in patria. Quando produci numeri da economia di guerra – 30 milioni di auto a combustione l’anno, 20 milioni elettriche – la domanda interna non basta più. Devi esportare. Devi colonizzare nuovi mercati. E la Cina lo sta facendo con una brutalità industriale che ricorda gli anni ’70 del boom giapponese, ma su scala doppia.
La battaglia si combatte lontano da Bruxelles
Intanto, mentre l’Europa si arrocca dietro il castello dei dazi e continua a inseguire un’idea astratta di “mercato automobilistico ideale”, la vera partita si sta giocando altrove. Non sulle nostre autostrade, ma nei confini più fluidi del mondo: America Latina, Africa, Sud-Est Asiatico ed Europa orientale. È lì che Chery, Geely, Great Wall e decine di marchi meno noti stanno costruendo il loro impero.
Non con l’elettrico, ma con modelli a benzina robusti, economici, semplici da mantenere. Il prodotto perfetto per Paesi che chiedono mobilità, non rivoluzioni verdi. È l’espansione più silenziosa e allo stesso tempo più aggressiva del nostro tempo. Secondo AlixPartners, entro il 2030 la Cina controllerà il 30% del mercato globale. Non grazie alla spinta ideale dell’elettrico, ma per la forza brutale del termico, quell’antico nemico che in Occidente abbiamo dato per sconfitto senza accorgerci che stava cambiando fronte.
La scomoda verità
E allora eccola, la realtà che non volevamo vedere: la Cina non ci sta invadendo con ciò che credevamo, ma con ciò che abbiamo sottovalutato. Abbiamo combattuto la battaglia dell’elettrico mentre loro aprivano un secondo fronte, molto più ampio, redditizio e difficile da controllare. Non era una guerra di futuro: era una guerra del presente. Un’attualità che ha ancora il sapore della benzina.