Di nuovo, la Germania prova a rimettere le mani sul volante dell’Europa. E lo fa con una lettera che pesa come un macigno sull’ingranaggio già cigolante della transizione elettrica. Friedrich Merz, cancelliere di un Paese che dell’auto ha fatto un totem e un pilastro industriale, ha scritto a Ursula von der Leyen chiedendo una revisione dell’obbligo di zero emissioni dal 2035. Non un dettaglio tecnico, ma una scossa tellurica agli equilibri comunitari: spostare la data significa rimettere in discussione l’intero impianto ideologico che ha accompagnato l’ascesa dell’elettrico. La transizione sembra scricchiolare più che mai.
La mossa del cancelliere tedesco
Merz prova a scardinare l’ortodossia climatica con un argomento che in Germania è già diventato un mantra: la neutralità tecnologica. “Il governo federale è convinto che questo approccio tecnologicamente neutro per i veicoli di nuova immatricolazione ci consentirà di raggiungere i nostri obiettivi climatici complessivi”, scrive il cancelliere. Non un no all’elettrico, ma un sì a tutto il resto: carburanti sintetici, biocarburanti avanzati, persino quelli tradizionali, che per Merz “devono continuare a svolgere il loro ruolo”. È la fotografia di un’industria che non vuole farsi trovare nuda quando la marea della transizione si ritirerà, lasciando sulla spiaggia investimenti monchi e stabilimenti svuotati.
La posizione tedesca, non a caso, scalda anche i piani alti dell’industria. Da Stellantis, Emanuele Cappellano definisce “benvenute tutte le misure che favoriscono un ritorno rapido e sostenibile alla crescita dell’industria automobilistica europea”. È il linguaggio misurato di chi ha imparato a non irritare Bruxelles, ma sotto la superficie scorre un messaggio più ruvido: senza una correzione di rotta, il sistema non regge. E non lo dicono soltanto i manager.
Cosa accade a Termoli
A Termoli, infatti, la protesta si è fatta piazza, megafoni e rabbia. Mille persone – operai, famiglie, lavoratori dell’indotto, sindaci del Basso Molise, perfino il presidente del Consiglio regionale – sono scesi in strada per difendere uno stabilimento che avrebbe dovuto diventare simbolo del nuovo corso elettrico, con una Gigafactory mai realmente decollata. Sul terreno restano solo promesse e denaro pubblico bruciato: “Sono stati spesi centinaia di milioni di euro ma le auto elettriche circolanti in Italia sono l’1 per cento”, ricorda il segretario nazionale della Uilm, Rocco Palombella. E avverte: “Termoli e il Molise rischiano di perdere 2.500 posti di lavoro. Non accetteremo che il Molise diventi un museo industriale”.
Il grido si allarga. “Questa transizione è fallita”, dice senza giri di parole Stefano Boschini della Fim-Cisl. E rilancia: “Devono riportare i motori sulle macchine. Bisogna ripartire dai veicoli ibridi non per abbandonare la transizione ma per farla con intelligenza”. È l’idea di un ponte, non di un salto nel vuoto. Una transizione che non si limiti a sostituire un powertrain, ma che costruisca un ecosistema realmente sostenibile. Lo scenario, per ora, non lo è.
Un po’ di ossigeno
Nemmeno in Stellantis l’ottimismo regna sovrano, ma una fessura nella nube c’è: “Dopo la presentazione della 500 ibrida a Torino ci sarà un po’ di lavoro nel 2026 a Termoli”, afferma Antonio Spera della Uglm. «Ci sono le condizioni per creare un’opportunità per quanto riguarda gli endotermici e i motori ibridi». L’immagine, più che una garanzia, è un galleggiamento. Ma in Molise, oggi, ci si aggrappa anche a quello.
Merz ha riaperto una partita che l’Europa credeva archiviata. Il 10 dicembre arriverà il verdetto dell’Ue. Ma intanto, tra Berlino, Bruxelles e Termoli, si allunga l’ombra di una domanda che nessuno vuole pronunciare: e se l’Europa avesse corso troppo, troppo in fretta, lasciandosi dietro proprio quell’industria che avrebbe dovuto salvare? Ai posteri l’ardua sentenza.