C’è un silenzio che pesa più di mille proteste nello stabilimento Stellantis di Termoli. È quello che accompagna la chiusura, ormai imminente, del reparto montaggio del motore Fire, prevista per questo mese di maggio. Un addio che sa di crepuscolo industriale, e che rappresenta non solo la fine di un ciclo produttivo, ma l’ennesima resa senza battaglia del tessuto manifatturiero italiano di fronte a strategie globali che sembrano disegnate lontano, su tavoli dove Termoli è poco più di una nota a piè di pagina.
La conferma dei sindacati
A confermarlo sono i sindacati – Fim, Uilm, Uglm e Fismic – che, nel consiglio di fabbrica di oggi, hanno messo nero su bianco ciò che gli operai temevano da tempo: il motore Fire, uno dei simboli della motorizzazione Fiat, si ferma. Un’intera generazione di lavoratori ha costruito automobili con quell’anima termica, ora considerata obsoleta e fuori tempo massimo nella narrativa verde del futuro a batterie. Eppure, dietro le parole d’ordine della transizione ecologica si cela un vuoto programmatico preoccupante. O, peggio, un disegno in cui lo stabilimento molisano sembra destinato alla marginalità, se non all’oblio.
Il reparto Fire conta 450 addetti. Nessuno, ad oggi, sa dove verranno ricollocati. Anzi, le prospettive sono a dir poco grigie. La produzione dei motori GME 2000 a benzina, destinati al mercato americano, è in fase di progressivo ridimensionamento: sarà sostituita da una linea produttiva interamente realizzata negli Stati Uniti. Il che, tradotto, significa che un altro pezzo di manifattura italiana trasloca Oltreoceano, nel silenzio assordante delle istituzioni. Anche i motori GSE, i mille e i milleseicento, arrancano: non girano a pieno regime e la cassa integrazione è ormai una misura strutturale, non più un paracadute temporaneo.
Il sindacato, a questo punto, alza la voce. Ma lo fa quasi in solitaria. “Si dovrà attendere ancora”, dicono, riferendosi alla speranza – sempre più flebile – che la nuova 500 ibrida possa risollevare i numeri e ridare ossigeno allo stabilimento.
Anche il piano alternativo – quello che avrebbe dovuto traghettare Termoli verso la conversione elettrica – è finito in una palude di incertezze. Il famoso progetto della Gigafactory, presentato come il faro nella nebbia della transizione ecologica, è fermo da quasi un anno. Avrebbe dovuto iniziare a produrre batterie nel 2026. Oggi, nessuno mette più una data. Anzi, nessuno sa se mai verrà realizzata. Le batterie? Forse altrove. L’occupazione? Per ora, solo un ricordo di ciò che era. E non basta il nuovo cambio – la cui produzione, peraltro, partirà solo a fine 2026 – a compensare numericamente gli esuberi previsti: 300 nuovi impiegati contro i 450 del Fire. È una matematica impietosa.
Una smobilitazione dolorosa
Ciò che resta, ora, è la mobilitazione. I sindacati annunciano “iniziative di sensibilizzazione” rivolte al territorio. È un segnale positivo, ma arriva tardi e suona debole. Perché la partita non si gioca nelle piazze molisane, ma nelle stanze dei ministeri e nelle sedi di Stellantis, che di italiano conserva sempre meno. Serve una visione industriale nazionale, serve una politica che torni a credere nella fabbrica, e non solo nelle conferenze stampa in cui si parla di futuro senza sapere come costruirlo.
Il motore Fire si spegne. Ma con lui rischia di spegnersi anche un’intera idea di Italia produttiva, solida, operaia. E in questa agonia silenziosa, Termoli è il simbolo di un Paese che non sa più difendere il lavoro.